Giustizia fatta per i “desaparecidos” italiani in Sud America

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Per i “desaparecidos” italiani in Bolivia, Cile, Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Perù la III Corte di Assise di Roma ha riconosciuto l’esistenza del disumano “Plan Cóndor” condannando all’ergastolo otto imputati, dopo due anni di dibattimento, 61 udienze e con l’audizione di decine di testimoni. Il Processo Condor è stato possibile in Italia perché molte delle vittime erano, appunto, di origine o cittadinanza italiana

Il dittatore cileno Augusto Pinochet con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger nel 1976

di Valter Vecellio

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Si chiamano Luis Garcia Meza Tejada; Luis Arce Gomez; Juan Carlos Blanco; Hernan Jeronimo Ramirez; Francisco Morales Cerruti Bermudez; Valderrama Ahumada; Pedro Richter Prada, Gernan Ruiz Figeroa. Ai più, questi otto nomi non diranno nulla. Meritano di essere ricordati, invece. Sono nomi che dovrebbero essere scolpiti nel grande libro dell’orrore e dell’infamia contro l’umanità. Non hanno nulla da invidiare ai criminali nazisti, stalinisti, maoisti; ai dittatori dell’Africa, del Medio Oriente, al cambogiano Pol Pot. Meza Tejada è stato presidente della Bolivia; Arce Gomez il suo ministro dell’Interno; Blanco ministro degli Esteri uruguayano; Ramirez e Ahumada alti esponenti dell’esercito cileno; Cerruti Bermudez ex presidente del Perù; Richter Prada il suo primo ministro; Ruiz Figeroa ex capo dei servizi segreti.

Tutti e otto sono stati condannati all’ergastolo, dalla III Corte di Assise di Roma: in quanto responsabile di quello che a suo tempo è stato battezzato “Plan Condor”: la strategia concertata da Bolivia, Cile, Perù, Uruguay (coinvolgendo poi anche  Argentina Brasile, e Paraguay), contro i loro oppositori politici.

Sono gli anni Settanta e Ottanta: quasi tutti i Paesi del centro e del Sud America sono oppressi da feroci dittature. I quattro Paesi stringono un accordo per eliminare gli oppositori: e in particolare sindacalisti, iscritti e militanti di partiti di sinistra, intellettuali, studenti. L’oppositore boliviano, anche se rifugiato in Cile o Perù o Uruguay, in virtù di questo accordo, diventa anche “oppositore” del Paese che lo “ospita” e perseguitato; e viceversa, ovviamente.

In questo modo “spariscono” migliaia di persone. Che c’entra l’Italia, un Tribunale di Roma? C’entrano perché in quell’orrore sono ingoiati anche ventitré cittadini di origine italiana. Gli otto sono stati condannati per averli mandati a morte. In origine sul banco degli accusati ce ne sono anche altri venticinque; diciannove sono poi assolti, per gli altri sei scatta il non luogo a procedere.

Tutto comincia il 12 febbraio del 2015. Alla sbarra trentatré persone: accusate di aver sequestrato e ucciso quarantadue prigionieri: argentini, cileni, uruguayani.

Indagini durate oltre dieci anni: tanti ne occorrono per individuare gli autori del “Piano Condor”. Il primo caso di “desaparecido” è Alvaro Daniel Banfi: sequestrato in Argentina il 12 settembre 1974, muore un mese e mezzo dopo.

“Ci saremmo aspettati di più”, confida Jorge Iturburu, presidente dell’Associazione “24 Marzo”, tra i promotori dell’iniziativa giudiziaria. Che si sia dovuto attendere tanti anni prima di avere un po’ di giustizia, indubbiamente lascia l’amaro in bocca: troppo tempo è trascorso da quei delitti; per troppo tempo i loro autori, per anni e anni, sono rimasti impuniti; alcuni di loro dopo aver vissuto tranquillamente la loro vita, hanno fatto in tempo a morire, prima della condanna.

Sentenza inutile, dunque? Tardiva, semmai. Inutile no: costituisce un precedente importante, soprattutto per quei Paesi, come la Bolivia, che non hanno mai condannato le violazioni dei diritti umani consumate dalle loro passate dittature. E’ un fatto storico che per la prima volta una Corte di giustizia europea abbia riconosciuto l’esistenza di un’alleanza perversa tra le dittature latino-americane. Dittature che hanno per anni oppresso quella parte di mondo che gli Stati Uniti consideravano il “loro cortile di casa”.

Qualcuno ricorderà un’affermazione diventata proverbiale, e attribuita al presidente Franklin D. Roosevelt all’indirizzo di Anastasio Somoza Garcia, dittatore del Nicaragua; ai suoi consiglieri avrebbe confidato: “Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. La frase appare per la prima volta in un articolo di “Time” nel novembre del 1948. Viene ripresa una dozzina d’anni dopo dalla “CBS”: il “nostro figlio di puttana” non è più Somoza, ma Rafael Trujillo, dittatore della Repubblica Dominicana. Da allora viene ciclicamente riferita ai vari inquilini della Casa Bianca nei confronti di questo o quel dittatore. Chissà, forse è una leggenda. Secondo Andrew Crawley, autore di “Somoza and Roosevelt, Good Neighbour Diplomacy in Nicaragua 1933-1945”, sarebbe stato lo stesso Somoza, a diffondere questa voce. Altri invece l’attribuiscono al segretario di Stato di Roosevelt, Cordell Hull (per inciso: premio Nobel per la pace 1945).

Come siano andate le cose è comunque un fatto che la politica degli Stati Uniti, prima e dopo Roosevelt, per quel che riguarda il centro e il Sud America è stata improntata all’insegna di quella “filosofia”, di quella “diplomazia”. Dei fatti e dei misfatti consumati, e/o “coperti” da Washington, molto si sa. Ma ancora tanto deve essere spiegato e conosciuto.

LA VOCE DI NEW YORK 19 gennaio

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